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27 Luglio 2010

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Si fa davvero fatica ad essere sorpresi della decisione della Fiat di spostare una parte cospicua della produzione di auto in Serbia. Infatti l'investimento della Fiat nel Paese balcanico è stato annunciato già nella prima metà del 2008, più di due anni fa, e ribadito più e più volte (l’ultima nel maggio di quest’anno). I giornali serbi hanno versato fiumi d'inchiostro sul tema: non poteva essere altrimenti, visto che la produzione Fiat è destinata a rappresentare un quarto di tutto l’export serbo. In Italia ha prevalso un «silenzio assordante» sulla questione, per lunghi mesi.
La Fiat ha citato, fin da quando ha annunciato la creazione della joint venture con il governo serbo (nel 2008, ripeto), un numero di auto da produrre a Kragujevac intorno alle 200mila (che avrebbero potuto diventare 300mila a regime). Questo numero è alquanto considerevole se teniamo conto che nel 2009 in tutte le fabbriche italiane sono stati prodotti 843mila veicoli, includendo sia le auto che i veicoli commerciali (nel corso dell’ultimo decennio la produzione di veicoli in Italia si è più che dimezzata). In un contesto di sovracapacità produttiva mai così elevata a livello internazionale, appariva quindi chiaro già da parecchio tempo che ci avrebbe potuto rimettere qualche altra fabbrica italiana della Fiat, e non certo quella polacca che è tra le più efficienti e moderne d'Europa (ha continuato a produrre a piena capacità produttiva anche nel bel mezzo della crisi). Nel ménage à trois tra Pomigliano, Mirafiori e Kragujevac (o a quattro, con Tychy), l'unica cosa certa era che sarebbero state le fabbriche italiane a subire le conseguenze peggiori.
Eppure negli ultimi mesi questa tematica non è mai emersa: mezza Italia (sindacalisti e politici in primis) appare ora sorpresa. Ma perché ci facciamo sempre trovare impreparati?
La questione Fiat ci riporta ad un problema industriale (è ormai alquanto difficile trovare stranieri che vogliano produrre in Italia), ma anche culturale (non conosciamo i nostri vicini, in fondo bastava leggere i giornali serbi per capirci qualcosa in più) e mediatico. Riguardo a quest’ultimo punto, è innegabile che il tema ha continuato a rappresentare un tabù finché non è stato «sdoganato» dal grande capo in persona. Sembra quasi che le imprese che producono all’estero ancora non possano godere di piena dignità e debbano investire quasi di nascosto, nonostante vi siano decine di migliaia di imprese italiane presenti oltre confine (ben 22mila imprese italiane tra quelle di una certa dimensione, cioè con fatturato sopra i due milioni e mezzo di euro, mentre il numero è estremamente più elevato se non si considera questa soglia). Tra l’altro lo spostamento prodotto verso Est non è solo un fenomeno italiano: dieci anni fa solo il 9% delle auto europee veniva prodotto «oltrecortina», ora un’auto su quattro. I maggiori dieci produttori di auto al mondo hanno, senza eccezioni, fabbriche in Est Europa (idem per i produttori di componenti e pneumatici). Slovenia, Slovacchia e Repubblica Ceca sono i Paesi al mondo che producono il maggior numero di auto per abitante ed hanno sviluppato notevoli competenze nel settore. Anche la Serbia - Paese che poco più di un decennio fa veniva bombardato dagli aerei della Nato (con il beneplacito dell’Italia) - non è un parvenu del settore: altri marchi legati al comparto auto quali Michelin, Dräxlmaier, Delphi e la cinese DongFeng hanno sviluppato importanti investimenti in Serbia durante gli anni duemila. L’industria serba dell’auto già conta circa 85 imprese (di cui un terzo estere) e occupa 150mila lavoratori.Il caso Fiat era ed è una questione vitale per il nostro Paese, e andava compresa, analizzata per poter approntare le necessarie contromisure (almeno per proteggere i lavoratori). Abbiamo invece perso un’occasione. Ed ora quest’affollarsi di medici intorno al paziente appare alquanto tardivo.

Link articolo IlGiornale