articolo dal portale di porticinews
di Francesco Capozzi
I fatti stanno dando ragione a quegli osservatori che avevano letto le vicende della fabbrica FIAT di Pomigliano in modo non ideologico, ma domandandosi semplicemente il perché dei comportamenti violentemente ricattatori della dirigenza aziendale. Dopo aver fatto un accordo “separato” con CISL, UIL, UGL, escludendo la FIOM/CGIL, e averlo sottoposto ad un “vincente” Referendum aziendale, l’AD della FIAT, S.Marchionne, sta cambiando un’altra volta le carte in tavola.
Ha confermato che gli investimenti a Pomigliano li farà, in vista della creazione di una linea di Panda; ma, accampando la scusa che c’è sempre più di un terzo di operai che non hanno accettato il diktat aziendale (cioè quelli che hanno votato no al Referendum), e che quindi non ha, lui, l’agibilità assoluta della fabbrica, ha dato via a due misure apparentemente slegate tra loro, ma convergenti e funzionali alle nuove strategie Fiat. Quelle vere, “fattuali” non di autopropaganda. La prima è che farà di Pomigliano una cosiddetta New Co, cioè una nuova Fiat Auto, slegata dalla Fiat tradizionale e che uscirà dalla Confindustria.
Cioè che non riconoscerà più i Contratti Nazionali. Che sono stilati tra le Federazioni Sindacali degli operai, impiegati ecc. con le Federazioni dei Rappresentanti sindacali Industriali (la Confindustria). O meglio che “erano” stilati, perché attualmente sono solo pochissime le Federazioni che hanno la forza di farlo: per lo più sono una serie di Contratti Aziendali.
In questa nuova società non riconoscerà nessuna tutela sindacale agli operai, ma forme di rappresentanza ai soli firmatari dell’accordo per Pomigliano, cioè escludendo FIOM e SLAI-COBAS. E, subito dopo un incontro coi sindacati “bravi” della II decade di luglio, ha già attivato procedure per cinque licenziamenti: tutti mirati. Si tratta di quattro operai vicini alla FIOM e di uno ai Cobas, i”cattivi”. Insomma: siamo tornati al più puro e duro “vallettismo” degli anni 50: quando Valletta cacciava dalle fabbriche operai sindacalizzati. Anche allora capitava che la CGIL era sulle punte delle baionette; ed aveva “contro” tutti gli altri sindacati.
Ma lo scenario è radicalmente diverso. Contestualmente, si viene a sapere ufficialmente che la FIAT porterà una parte della nuova produzione alla vecchia fabbrica Fiat Zastava, che era il modello costruito ai tempi di Tito, vicino a Belgrado, a Kragijevac. Non più in Polonia, come si vociferava, ma nell’ancora più conveniente ex-Jugoslavia, dove lo stato serbo, la BEI (Banca Europea per gli Investimenti), provvederanno a risanare, ricostruire e mettere in funzione la fabbrica distrutta dai bombardamenti del 99; la Fiat metterà le catene di montaggio più innovative: ma con gli operai, relativamente scolarizzati e formati, che costano mediamente 400€ al mese, di fronte ai 600€ della Polonia e ai 1200 italiani. Il risparmio sembrerebbe considerevole, tale da tacitare ogni altra obiezione.
Ma le cose non stanno così. Innanzitutto, la stessa Mirafiori è a rischio. Non si capisce più per quale motivo, a questo punto, il Marchionne e i suoi dirigenti e azionisti, (lo sparuto John Elkan, a nome della Famiglia Agnelli) dovrebbero continuare a investirvi: ma poi a costruire che? Quali auto, se le più nuove vanno in Serbia? A questo punto c’è spontanea un’altra domanda: c’è qualche altra “sorpresa” di diversa allocazione della fabbriche italiane? Non è che questa solerte accolita di capitalisti “coraggiosi” ha in mente qualche piano con la Chrysler che spariglierebbe tutto quello che ci hanno strombazzato fino ad ora, circa la funzione “imprescindibile” dell’Italia nel nuovo corso italo-americano? Piano di cui, diciamo così, magari “tardano” a comunicarci il tenore. C’è poi una considerazione più economica.
L’incidenza del costo della forza-lavoro, in una struttura così complessa e ricca di tecnologie applicate, come una fabbrica di automobili che voglia stare sul mercato oggi, è del 7/8% sul capitale totale; quindi il risparmio finale supera di poco il 3% nel prodotto finale. Se questi qui, per un risparmio di così piccola entità stanno creando delle condizioni di fortissime tensioni sociali, vuol dire che stanno davvero malmessi. Cioè il loro MOL (margine operativo lordo per prodotto) è talmente risicato, che i profitti possono venire solo in questi modi.
E dove sta quell’innovazione e ricerca che, a loro dire, avrebbe contrassegnato la “nuova” Fiat? Semplice: non c’è; o, se c’è stata, appartiene al passato: la novità del motore TwinAir non è recentissima, anche se solo ora si parla di metterla in produzione. La Volkswagen, che ha confermato tutte le sue strategie di sviluppo in patria e altrove, senza lasciar fuori nessun impianto, è diventata il numero 1 in Europa con i salari più alti del comparto.
Quindi questa necessità di far regredire le stesse condizioni di vita degli operai Fiat a quelle degli anni 50, senza diritti e tutele, di cui vorrebbero convincerci, non è assoluta, ma riguarda la specifica debolezza della Fiat, che ha accumulato profitti nel passato solo con l’aiuto del governo, delle cosiddette “svalutazioni competitive” della nostra liretta, spericolate operazioni finanziarie: difficilmente con una strategia industriale degna di questo nome.
Anzi, sembra ora evidente che gli Agnelli vogliano “mollare” tutto il settore auto al miglio offerente. E il Governo che fa? Ora non ha nemmeno ancora un Ministero dell’Industria dopo le dimissioni dello Scajola, e s’interessa del dossier Fiat il Ministro del Welfare, Sacconi, ma con un’incidenza, allo stato, minima. Anche perché a Berlusconi non frega nulla elettoralmente degli operai in generale e ha ben altre situazioni “personali” cui pensare, tra cui: la P3 in cui sono coinvolti suoi strettissimi collaboratori, la Legge sulle intercettazioni, il suo concorrente Sky che potrebbe traslocare anche lui sul digitale, ecc. Ha solo flebilmente “auspicato” che la Fiat resti in Italia.
C’è da dire però che la figura ancora peggiore in assoluto la stanno facendo i sindacati “firmatari”, sia dell’accordo di Pomigliano che di tutta questa sequela di protocolli d’intesa, in cui la Fiat ha contato loro solo palle, ovvero CISL, UIL e UGL.
Con quale faccia si presentano agli operai quando l’Azienda sta clamorosamente disattendendo tutte le promesse fatte a loro, in cambio della rottura dell’unità sindacale, di “sicurezza del posto di lavoro” in fabbrica, a Pomigliano e altrove?