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27 Agosto 2010

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http://notizie.tiscali.it

di Antonella Loi

"Si sta facendo di tutto per far pagare il costo della crisi ai lavoratori invece che alle imprese, alle banche o alla politica". E' in atto una "guerra non dichiarata" per spostare "responsabilità maturate nell'arco di una trentina d'anni" e sfociate nella crisi cominciata nel 2007. All'indomani dell'intervento di Sergio Marchionne al meeting di Cl di Rimini, Luciano Gallino, sociologo, scrittore e docente di Sociologia all'università di Torino, legge tra le parole dell'Ad di Fiat ("la Fiat vuole cambiare, l'Italia no", "basta con il conflitto padroni-operai" e ancora "si apra ad un nuovo patto sociale"), precedute di poco da quelle di Marcegaglia ("Basta con la lotta di classe") e di Tremonti ("La legge sulla sicurezza sul lavoro è un lusso"), un altro tipo di conflitto, "meno evidente ma significativo".

Professore, è in atto il tentativo di far pendere la bilancia da una parte sola?

"Certo, perché oltre il conflitto di classe, del quale già Adam Smith aveva capito parecchio, c'è il problema di chi paga i costi della crisi. Mentre tutti parlavano di nuova primavera, fiori in bocciolo, l'economia che sta ripartendo, arrivano i dati sull'economia americana che sono abbastanza drammatici, perché la crisi continua con alti e bassi. I lavoratori in genere, di tutti gli strati sociali,  anche della cosiddetta classe media, hanno pagato e stanno pagando una parte importantissima di questi costi. In termini di servizi sociali, tagli alla sanità, ai trasporti pubblici, attraverso i tagli ai comuni. Ma questo avviene in tutta Europa, non solo in Italia. L'Italia segue in modo del tutto pedestre quello che sta avvenendo in Europa, anche perché l'Unione europea è uno degli organismi più di destra che ci siano in giro per l'Europa continente. Quanto accade alla Fiat è un episodio che ha una componente tradizionale. Non bisogna far finta di non vedere: si fa pagare tutto ai lavoratori".

Marchionne punta il dito contro "un'Italia retrograda che non vuole aprirsi a nuovi orizzonti".
"Non è la prima volta che l'ad Fiat si esprime in questo modo, l'hanno fatto anche altri imprenditori e politici negli ultimi anni. Il problema è che si può incivilire il conflitto, si può renderlo democratico mantenendolo sul piano della massima correttezza possibile da ambedue le parti. Ma come disse bene Adam Smith oltre due secoli fa 'il conflitto è inerente al posto di lavoro'. I datori di lavoro hanno interesse a pagare gli operai il meno possibile e gli operai hanno l'interesse ad essere pagati meglio, il più possibile. Quindi uno ci può girare intorno cercando di raddolcire, ma resta il fatto che il conflitto è intrinseco al posto di lavoro, impresa e dipendenti. Quindi parlare di aggiramento, superamento significa non guardare nel fondo del problema".

Secondo lei la Fiat cerca di scardinare un sistema di garanzie e diritti o è, piuttosto, solo un pretesto per lasciare l'Italia e approdare in mercati più favorevoli?
"Non è facile propendere per l'una o l'altra interpretazione perché le dichiarazioni e le mosse della Fiat, da un anno a questa parte sono piuttosto ieratiche. Da un lato c'è la drammatica situazione dell'industria automobilistica mondiale che soffre di un eccesso di capacità produttiva. E le case per portarsi via i clienti a vicenda, ormai tendono a ridurre il costo del lavoro ai minimi. Ricordiamo che quattro anni fa Marchionne diceva: per carità non è mica quello il problema perché incide sul 5-7 per cento dei costi industriali. Però quando l'industria è così ridotta e la guerra dei prezzi così aspra anche l'1 per cento è importante. L'idea di portare in Italia le condizioni di lavoro polacche fa parte della guerra dei prezzi. Detto questo...".

Azzardi.
"Credo che in fondo forse la Fiat non sarebbe così malcontenta di dover dire che in Italia non ci sono le condizioni e quindi non si può non spostare la produzione della Panda in altri Paesi. E' quello che stanno facendo tutti gli altri produttori mondiali, europei, giapponesi, che non producono più in patria le piccole vetture sulle quali si guadagna poco ma si spostano in Brasile, in Cina, in Russia".

Che interpretazione dare, in questo contesto, all'esortazione di Napolitano al dialogo e al rispetto delle leggi?
"Mi pare una dichiarazione molto significativa in difesa di quello che è stato fino ad oggi un aspetto molto importante del nostro Paese e della nostra repubblica che è la 'civiltà del lavoro', che l'Italia ha condiviso con altri Paesi come la Francia, la Germania il Regno Unito, almeno fino all'avvento della Thatcher. L'Europa occidentale è stato il luogo del mondo dove la civiltà del lavoro si è maggiormente sviluppata e in cui si sono affermati certi importanti diritti che sono i diritti umani e che hanno la loro applicazione nei luoghi di lavoro. Credo che Napolitano abbia richiamato questo: uscire dal riconoscimento di quei diritti di quegli sviluppi significherebbe fare un grosso passo indietro nel nostro vivere civile".

Il caso Fiat fa emergere un altro aspetto, quello del ruolo dei sindacati.
"Il sindacato è sotto attacco da almeno una trentina d'anni, in tutto il mondo sviluppato. Nel mondo meno sviluppato non è nemmeno cresciuto, è un fantasma, è magari una legge ben scritta ma che non ha applicazione. Nel mondo occidentale, Stati Uniti compresi, il sindacato ha avuto un ruolo importante nell'incivilire le condizioni di lavoro per una parte del Novecento e anche per i primi trent'anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. E' stato messo sotto attacco da Reagan, Thatcher e poi via via da altri, compresi in parte i governi italiani. Dopodiché non si può dire che il sindacato non abbia senso, certo che ce l'ha perché come ricordavo prima, l'osservazione di Adam Smith fonda di per sé l'esigenza di un sindacato".

Sindacati organici al sistema produttivo.
"Perché, altrimenti, il lavoratore come fa a discutere - come si vorrebbe fare oggi anche in Italia - individualmente le condizioni di lavoro con una grande impresa o anche con un'impresa piccola-media? Come fa a discutere con un'impresa di 200 dipendenti e dire ma io vorrei lavorare non più di 39 ore a settimana, vorrei guadagnare 1500 euro, fare una pausa ogni tre ore eccetera? E' impossibile. Occorre un'unità di azione collettiva. Il sindacato è l'unico ente che può trasformare in una forza relativa la grandissima debolezza del singolo dinnanzi a quel collettivo che è l'impresa. Se il sindacato non c'è più i lavoratori sono consegnati a un destino molto triste perché diventano soli dinanzi a quello che, piaccia o no, è lo strapotere dell'impresa dinnanzi al singolo che ha bisogno di lavorare, di mandare i figli a scuola, pagare le bollette, il mutuo eccetera".

I sindacati alla Fiat si dividono: c'è chi lotta strenuamente per salvaguardare i diritti e chi scende a patti con l'azienda.
"Alla Fiat due sindacati, Cisl e Uil, ritengono che viste le condizioni internazionali, vista la globalizzazione, sia necessario essere miti e remissivi dinanzi alla proprietà, all'impresa. La Fiom invece, con un pezzo di Cgil, fa ancora il suo mestiere. Non lo farà benissimo, ha commesso sicuramente degli sbagli, può essere a volte troppo dura, a volte non abbastanza: resta il fatto che fa più o meno quello che dovrebbe fare il sindacato, cercare di mantenere i diritti che ci sono e magari espanderli. L'espansione dei diritti avviene tra il '50 e la fine degli anni '70. Adesso bisogna cercare di difenderli. Per una parte del sindacato questo sembra essere un relitto del passato. Ed è un male, perché in un mondo in cui i lavoratori dipendenti non sono mai stati tanto numerosi c'è tanto bisogno del sindacato".

26 agosto 2010