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27 Ottobre 2009

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di Antonio Sciotto - INVIATO A PRAIA A MARE (COSENZA)
22.10.2009

In 50 anni oltre 40 morti e 60 malati di tumore nella fabbrica tessile Marlane di Praia a Mare. Quindici indagati per omicidio, tra loro i vertici aziendali
Una quarantina di morti per tumore, almeno altri 60 ammalati. Ancora oggi molti di loro lottano contro il cancro e altre malattie, come il diabete. La Marlane ? un tempo del gruppo Eni, ma dal 1987 della famiglia Marzotto, fabbrica tessile attiva dal 1956 al 2004 ? avrebbe lasciato dietro di sé numerose vittime nel piccolo paese di Praia a Mare, sulla costiera cosentina, a pochi chilometri da Amantea e Cetraro, dove per altro sono inabissate le ormai tristemente famose «navi dei veleni». I tumori sono di tipi differenti, alcuni anche molto «anomali»: ad esempio ci sono casi di carcinoma mammario maschile, molto raro.
Abbiamo conosciuto un ex dipendente operato per un cancro al pavimento sub-linguale. Diversi carcinomi mammari e uterini per le donne, ma anche allo stomaco, o alla pelle: di naso, braccia, spalla. Questi particolari tipi di tumore, intervenuti in molti casi alle parti molli del corpo, sono indotti da alcune sostanze cancerogene ritrovate puntualmente nei carotaggi fatti effettuare l'anno scorso dalla Procura di Paola proprio sotto la Marlane, in prossimità del «depuratore» attraverso cui venivano smaltiti gli inquinanti: sono stati trovati cromo esavalente, zinco, rame, piombo, coloranti azoici allo stato puro, contenenti in particolare le ammine aromatiche, fortemente cancerogene. Ancora, nei freni dei 108 telai e di diverse altre macchine, venivano usate pasticche d'amianto: diffondevano polveri notoriamente cancerogene, che gli operai inalavano.
Indagati ai vertici
Anche questo caso, come quello delle «navi dei veleni» è in mano alla Procura di Paola: il procuratore capo Bruno Giordano e il sostituto Antonella Lauri hanno chiuso ufficialmente le indagini. I casi di malattia accertati sono in tutto 107 ? tra morti e ammalati ? ma, spiega la pm Lauri, «potrebbero essercene parecchi di più: e infatti stiamo costruendo un'anagrafe incrociando le schede di dimissione ospedaliera delle Asl con i registri dell'impresa». Gli indagati sono quindici: tra loro dirigenti locali della Marlane, ma anche figure di spicco, di vertice, del gruppo Marzotto. I nomi sono tutti filtrati dalle cronache locali e nazionali: tra loro sarebbero inclusi Carlo Lomonaco, attuale sindaco di Praia a Mare e per anni direttore del reparto tintoria, e Pietro Marzotto. Gli altri nomi: Silvano Storer, Antonio Favrin, Jean De Jaegher, Attilio Rausse, Lorenzo Bosetti, Bruno Taricco, Vincenzo Benincasa, Salvatore Cristallino, Ivo Comegna, Giuseppe Ferrari, Lamberto Priori, Ernesto Emilio Fugazzola.
Sette persone sono accusate di omicidio colposo; 9 di discarica abusiva; 9 di disastro ambientale e 6 di omesso collocamento di dispositivi antinfortunistici. Gli abusi non sarebbero stati pagati solo dagli operai, ma da tutta la comunità locale: infatti per anni i fanghi e i liquidi inquinanti sarebbero stati sversati sul territorio e dunque nel mare (la fabbrica si trova di fronte alla spiaggia), mentre la pm conferma che nell'area intorno allo stabilimento, recintata e di pertinenza della Marlane, sono stati ritrovati «bidoni, fusti e rocchette», evidentemente interrati.
«Tumore mammario maschile»
Se si compie un breve giro per Praia, si incrociano certamente ammalati di tumore, ex dipendenti della Marlane. E' triste da dire, ma è quello che ci è capitato quando siamo andati in cerca di testimonianze guidati da Alberto Cunto, ex tecnico Marlane e coordinatore dello Slai Cobas, che insieme alla moglie da anni cerca giustizia per il suo paese, vincendo un muro di omertà e paure che solo da qualche anno si è squarciato, grazie anche all'accelerazione impressa solo ultimamente dalla Procura. I fascicoli aperti dal 1999 erano ben tre, ma fino agli attuali componenti della Procura nessuno ha mai veramente creduto nell'importanza e dirompenza di questa storia, mettendo tra l'altro a rischio la possibilità di molte famiglie di ricevere gli adeguati risarcimenti. Infatti, a causa della prescrizione molto breve imposta dalla legge Cirielli, possono sperare di ottenere piena giustizia solo i familiari dei morti dopo il 2002, dato che l'imputazione è per omicidio colposo. Diversamente sarebbe se si formulasse l'accusa di omicidio volontario con dolo eventuale, come è stato per la Thyssenkrupp: in questo caso rientrerebbero anche i morti dagli anni '70 in poi (i primi di cui si ha notizia). In ogni caso, l'omesso collocamento di dispositivi antinfortunistici e il disastro ambientale non vanno in prescrizione, dunque almeno per questi reati c'è speranza di coprire tutto l'arco degli abusi.
Il latte «disintossicante»
L'intero sistema Marlane è sotto accusa. L'avvocato Natalia Branda, che dal suo studio di Diamante segue 37 tra offesi e familiari, ci spiega che tutti gli operai da lei sentiti hanno confermato che la Marlane non forniva maschere, guanti nè altre protezioni a parte le normali tute da lavoro. Le grandi vasche della tintoria, dove venivano bolliti ad alte temperature i coloranti, e uniti a reagenti tossici (diversi tipi di acido) per molti anni sono stati prive di copertura, mentre nel 1969 ? proprio l'anno in cui l'Eni rilevò la fabbrica dall'Imi ? sono state abbattute tutte le barriere divisorie interne, e creato un grande ambiente comune. I miasmi venefici provenienti dai reparti tintoria e finissaggio, i più pericolosi, si cominciarono così a diffondere senza ostacoli in tutto lo stabilimento, tanto che spesso ? riferendosi alla spessa nuvola colorata che impediva loro di vedersi a pochi metri di distanza ? gli operai parlavano di «nebbia in Val Padana». E va sottolineato il fatto che l'obbligo di dividere gli ambienti con apposite pareti è in vigore già dagli anni Cinquanta.
L'azienda, conferma la pm Lauri, cominciò a un certo punto a distribuire cartoni di latte, ma non a tutti: soltanto agli operai della tintoria e del finissaggio. Si era diffusa la convinzione ? piuttosto ingenua ? che bere il latte avesse una funzione «disintossicante». La pulizia delle vasche veniva fatta nel week end dagli stessi operai: utilizzando non solo acido muriatico e altri solventi tossici, ma anche delle pistole ad aria compressa che sparavano le polveri (in particolare quelle di amianto) un po' dappertutto, aumentando perciò la quantità di cancerogeno inalato.
Tanti testimoni affermano che l'azienda, all'arrivo dei fusti con i coloranti, faceva rimuovere le etichette con i componenti e in particolare con i simboli di pericolo (il teschio e le tibie). Le visite mediche scarseggiavano, anzi molti raccontano che per diversi anni in luogo del medico aziendale era presente in fabbrica solo un semplice infermiere. Nel 1996 il dottore aziendale (in questo caso un vero medico) ? spinto dagli ormai troppo evidenti e numerosi casi di morte e malattie ? dispose che si dovesse tornare a separare gli ambienti tra loro; che si compilassero delle schede di rischio, e che si attuasse la «prevenzione secondaria», cioè frequenti visite di controllo. Solo i pensionandi, a quel punto, furono informati dalla Marlane che avrebbero potuto in futuro avere dei tumori; chi era già pensionato, però, non fu mai neanche convocato. «Nonostante quelle disposizioni del medico aziendale, la produzione continuò allo stesso modo, con gli stessi prodotti ? nota l'avvocato Branda ? E' per questo, e per tutte le altre evidenze, dal latte distribuito agli operai a rischio fino alla rimozione delle etichette, che noi chiediamo l'accusa di omicidio volontario con dolo eventuale. Perché a un certo punto l'azienda non poteva non sapere».
Il danno ambientale
Ai danni dell'ambiente si sono maturati almeno due tipi di abuso nei quasi 50 anni di funzionamento della Marlane: innanzitutto il costante sversamento dei rifiuti liquidi e dei fanghi attraverso un depuratore, in realtà malfunzionante visti i risultati preoccupanti dei carotaggi. Il terreno si è dunque riempito di sostanze tossiche e cancerogene, con rischi non solo per le possibile falde acquifere sottostanti ma anche per il mare prospicente e i bagnanti (l'area non a caso per anni è stata dichiarata «non balneabile», ma molti hanno continuato comunque a frequentare le spiagge). Inoltre, c'è l'interramento volontario di fusti, bidoni e rocchette trovati nel corso degli scavi operati l'anno scorso alla presenza della pm Lauri. «Non c'è traccia di formulari di regolare smaltimento, per interi anni ? nota la Procura ? Su dove siano finiti i rifiuti c'è un vero e proprio buco documentale». In ultima analisi, potrebbe benissimo presentarsi l'intera comunità come parte civile: ma finora nessuno ha preso l'iniziativa.